Il filo nascosto e la maestria cinematografica di Paul Thomas Anderson

Una lezione di regia. Non a caso girato in pellicola, “Il filo nascosto”, o meglio “Il filo fantasma” se rimaniamo legati al titolo originale (“Phantom Thread”), è l’ottavo film di Paul Thomas Anderson. Un regista pluripremiato, da Berlino a Cannes e Venezia, sceneggiatore e produttore statunitense apprezzato per titoli come “Sydney”, “Boogie Nights”, “Magnolia”, “Ubriaco d’amore”, “Il petroliere”, “The Master” e “Vizio di forma”. Il suo linguaggio cinematografico si rivela raffinato ed espressivo in ogni dettaglio, ambiguamente proteso ad arricchire di sfumature la storia.

Al centro della vicenda è il talento maniacale e il temperamento ossessivo di un sarto che non ha difese e confini rispetto al suo lavoro, Reynolds Woodcock, nella Londra degli anni Cinquanta. Un artista della stoffa, venerato a livello mondiale da aristocratici e vip, ispirato alla figura di Cristóbal Balenciaga.

Reynolds è interpretato con la consueta profonda adesione (fisica e introspettiva) al personaggio da Daniel Day-Lewis. Per il tre volte premio Oscar si è trattato di un ritorno con Anderson dopo “Il petroliere”. L’incontro di Woodcock con la cameriera Alma Elson, una Vicky Krieps (attrice lussemburghese) non meno magistrale nell’esprimere pulsioni contraddittorie e complicazioni interne al proprio essere, fa esplodere fantasmi e nevrosi. A essere scompaginati risultano relazioni ed equilibri, a partire dal rapporto simbiotico dell’uomo con la sorella, Cyril, impersonata dalla britannica Lesley Manville. Si tratta di un triangolo nevrotico reso dagli interpreti tramite sguardi e atteggiamenti corporei di rara sottigliezza.

Ogni fotogramma del “Filo nascosto”, che ha ottenuto sei candidature all’Oscar (compreso miglior film), rilancia un punto di vista o ribalta una convinzione in una dialettica sotterranea che coinvolge immagine in movimento e musiche, quelle originali di Jonny Greenwood e diverse composizioni di musica classica, parole e silenzi, comportamenti e desideri spesso sottaciuti. Nel segno di un pianoforte palpitante, che riflette l’interiorità inquieta di Reynolds, e di note dissonanti che acuiscono gli elementi disturbanti e le inquietudini, suggestioni e stordimenti sono l’esito di una messa in scena che contraddice e altera l’apparente classicità di situazioni e scene.

Si mettono in evidenza i primi e primissimi piani e i campi e controcampi, frutto di uno stile irregolare, i toni caldi di alcune sequenze e la freddezza di altre scene, la molteplicità cromatica e le variazioni nei colori, come segno dei mutamenti degli stati d’animo e dei rapporti di forza, grazie alla fotografia dello stesso Anderson. La rielaborazione visiva richiama un mondo e un’epoca interpretati dal regista in modo da esprimere il suo punto di vista sulla realtà dei rapporti affettivi e sul cinema. La capacità del grande schermo di ricreare il mistero delle esistenze e le lacerazioni che inquinano la vita emerge in ogni tassello.

Nella composizione dell’immagine, la differenza tra (pochi) esterni e molti interni, con l’alternanza di sfondi dalla forza pittorica, così come i piccoli avvicinamenti della macchina da presa e i suoi spostamenti, tratteggiano disturbi ed emozioni complesse che animano, in mezzo a guerre di potere e all’ombra di thanatos, Reynolds, Alma e Cyril.

La qualità estetica del film, dalle inquadrature ai costumi premiati dall’Oscar di Mark Bridges e alla scenografia di Mark Tildesley, è in linea con l’attenzione a ogni particolare. Ogni tessuto è, sì, un involucro esterno ma è pure in relazione con ciò che si è nel profondo, in quanto ciascuno cerca di conformarsi a vestiti e stili. Il montaggio di Dylan Tichenor asseconda rallentamenti riflessivi e svolte che la regia di Anderson esalta, collocando la macchina da presa sempre in funzione della contesa drammatica e dei suoi risvolti cruciali.

Il contrasto tra individuo e massa è valorizzato nelle sequenze della festa di Capodanno. La rinnovata complicità che ricongiunge i protagonisti può ricordare la contraddittorietà della coppia messa in scena da François Truffaut ne “La mia droga si chiama Julie”, in una sequenza chiave tra cibo e avvelenamento. Si riscontrano pure citazioni di Hitchcock, riferimenti a molti maestri (tra classicità e deviazione) ed echi del celebre, centrale sempre per Truffaut, “né con me né senza di te” di Ovidio e dell’analisi di Lacan sull’inesistenza del rapporto sessuale.

Nel complesso, il linguaggio filmico di Anderson, con un’eleganza che ricorda Ophüls, evoca ossessioni e tormenti tra luce e buio, nitidezza e immagine velata o sfumata, candele e luminosità, bianco e nero, sguardi e silenzi, specchi e partiture intime, fantasmi (la madre di Reynolds) e messaggi segreti inseriti all’interno dei vestiti per accordare interiorità ed esteriorità.

“Il filo nascosto” si concentra sull’equilibrio fallace che investe il lavoro creativo, con la sua ricerca della perfezione, e la pretesa di plasmare e controllare fino in fondo l’altro in un rapporto amoroso. In un film nel quale gli abiti e il cibo sono in correlazione con l’esistenza e la sua ricerca di senso, l’amore disorienta e rende disarmati. Solo la violenza e la forza, in un gioco sadico e masochistico destinato a rovesciamenti di fronte, possono determinare mutazioni nel legame, nell’impossibilità di stare bene con sé stessi e con gli altri. L’infanzia è fonte di eterne domande e le maledizioni appaiono quelle che gli esseri umani s’infliggono senza affrontare fino in fondo i propri nodi nevrotici.

A prevalere sono le dicotomie: tra bellezza e sostanza dolorosa delle cose e delle relazioni, ideale di perfezione e realtà, nutrimento (del cibo, dei sentimenti, della creazione) e annientamento dell’altro da sé, non potendolo piegare ai propri desideri. Il conflitto che vede contrapposti l’essenza e ciò che indossano gli esseri umani, la loro immagine e l’intimità del loro essere, può trovare momenti di armonia passeggera tramite la scintilla oscura della creatività, nella creazione di abiti ma anche nel cinema, in attesa che una forza distruttiva prenda il sopravvento.

In un ponte culturale che unisce passato/presente e il grande schermo e le componenti musicali, la pellicola valorizza l’immaginario degli anni Cinquanta, con il parallelo sarto/regista e la tessitura come fattore decisivo della narrazione, senza perdere una dimensione universale. Così ci s’interroga sul potere e i suoi abusi, sulla seduzione, la morbosità e l’egoismo. Non meno significativo il tema dell’accudimento e dell’ombra del materno, a partire dalla ferita del protagonista e del significato etimologico del nome Alma, ovvero “colei che nutre”. Si assiste a complessi giochi psicologici di accoglienza e sopraffazione, lambendo le radici del malessere e delle coazioni a ripetere.

In questo racconto per immagini con tracce melodrammatiche e psicoanalitiche, che sovvertono l’idea di un’unione amorosa paritaria e matura, spiccano gli avvicinamenti e i distacchi, le vertigini, le salite, le scale (così cinematografiche), le cadute e le speranze nascoste, in un vortice di passioni distruttive, confinate nei recessi di anime inquiete.

Marco Olivieri
Informazioni su Marco Olivieri 26 Articoli
Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni” e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero». Critico cinematografico e teatrale, si occupa di Uffici Stampa, Cultura, Politica, Società e Terzo Settore.

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