Romano Artioli e il sogno infranto della Bugatti italiana

Oggi il marchio Bugatti è di proprietà del Gruppo Volkswagen, ma tra il 1987 e il 1995 è stato protagonista di una coraggiosa operazione industriale, mirata alla nascita di una gamma di vetture gran turismo meccanicamente raffinate e, semplicemente, bellissime. Ma andiamo con ordine.

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La Bugatti nacque nel 1910. Definirla un’industria automobilistica francese è quantomeno superficiale, visto che Ettore Bugatti era milanese (e rimase italiano fino al 1945, due anni prima della sua morte) e che non emigrò in Francia, bensì in Germania. Infatti, Molsheim, la città natale del marchio, all’epoca era tedesca: divenne francese dopo la prima Guerra Mondiale. Quindi, era un’azienda nata tedesca, naturalizzata francese e fondata da un italiano. Il primo esempio di industria europea (anche se Ettore, malgrado le sue origini, si sentiva più francese che italiano).

L’azienda, che si è sempre distinta per aver prodotto in numero esiguo automobili bellissime ed eleganti, unitamente ad una serie d’automotrici ferroviarie molto veloci ed efficienti; capitolò nel 1955 dopo essere stata requisita, a fine anni ’30, dallo stato francese perché azienda italiana (allora italiani e tedeschi non erano molto popolari all’estero…). Per circa trent’anni il marchio rimase immerso in una sorta di letargo dal quale si risvegliò a fine anni ’80.

Il sogno italiano

Nel 1987 Romano Artioli, modenese e titolare dell’Autoexpò (importatore Suzuki per l’Italia), realizzò il sogno di una Bugatti italiana siglando un accordo con la Bugatti International, creata da Jean-Marc Borel, in base al quale si diede vita al marchio Bugatti Automobili. Tal emblema sarebbe stato apposto sul musetto di una nuova serie di vetture GT esclusive e tecnologicamente avanzate. Sponsor tecnici dell’impresa furono le francesi Aerospatiale, Elf e Michelin.

L’industria sorse a Campogalliano. La scelta cadde su tale sito due ragioni: anzitutto perché era nel modenese, cioè in quella piccola zona del nostro Paese dove si producono le migliori gran turismo del mondo; in secondo luogo, Campogalliano era un antico insediamento dei Galli, in onore alla Bugatti, quell’originaria, che in territorio gallico vi nacque.

Subito s’iniziò la progettazione di un’unità propulsiva molto particolare: un V12 da 3.5 litri, dotato di quattro turbine IHI (due per bancata), con cinque valvole per cilindro e dalla ragguardevole potenza di 412 Kw. Insomma un vero gioiello di tecnica e, permettetemi, frutto di quell’automobilismo “italico” che, ormai, troppo spesso è messo in secondo piano.

Comunque, il propulsore fu ultimato in meno di un anno, già nel 1988 era operativa la sala prova motori: un grande parallelepipedo azzurro dotato di un grossissimo emblema Bugatti, che divenne presto l’icona della nuova fabbrica.

Nel 1989 le prime vetture varcarono i cancelli dello stabilimento (ormai quasi completo) per compiere i test stradali. Erano prototipi definiti solo nella parte meccanica, mentre la carrozzeria era ancora provvisoria. Infatti, prima della versione ultima, furono esaminati due studi: il primo, firmato da Marcello Gandini (padre di moltissimi modelli tra cui la Diablo e l’ultima Maserati Quattroporte) ebbe un notevole sviluppo, che culminò con i prototipi di preserie; mentre il secondo, realizzato da Giugiaro nel 1990 sulla medesima meccanica del precedente e denominato ID90, rimase allo stadio di prototipo. La berlinetta Bugatti presentata ufficialmente, la disegnò l’architetto Giampaolo Benedini (lo stesso che progettò lo stabilimento) rivedendo le linee impostate da Gandini.

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Il 15 settembre del 1990, con un grande ricevimento, i vertici dell’azienda presentarono al pubblico lo stabilimento e il prototipo sperimentale della vettura, mentre un anno dopo, il 14 settembre del ’91, a Place de la Defense a Parigi, fu presentata la vettura definitiva. Inutile precisare che non si trattava di un “porte aperte” con i pasticcini e qualche bibita, ma di una sontuosa cerimonia cui fu invitata la “créme” dell’alta società europea.

La vettura, denominata EB110 in onore agli anni trascorsi dalla nascita di Ettore Bugatti, era mossa dal possente V12 prima descritto, aveva una scocca in fibra di carbonio e compositi ed aveva la trazione integrale permanente con cambio a sei rapporti. Era straordinariamente affascinante.

A dicembre del 1991 allo svizzero Wassmer fu consegnata la prima EB110 di serie.

Il risveglio

Per la Bugatti Automobili si presagì un futuro fatto di grandi successi. Che non arrivarono mai. Infatti, ben presto i piani alti della società si accorsero di quanto fosse difficile, per un piccolo e ambizioso costruttore, sopravvivere con tranquillità. All’equipe, però, l’entusiasmo non mancò e al Salone di Ginevra del ’92 presentarono l’EB110 SS: una versione estrema ulteriormente potenziata (451Kw).

Intanto, la produzione continuava a non decollare, gli ordini c’erano ma non in quantità tali da permettere il pieno utilizzo della capacità produttiva dello stabilimento.

La speranza, si dice, è sempre l’ultima a morire e nel 1993, quando già, a Campogalliano, soffiava un venticello gelido di crisi, la Bugatti presentò l’EB112, una berlina quattro porte. Disegnata dall’Italdesign era dotata della stessa meccanica della EB110, solo che la cilindrata del propulsore fu quasi raddoppiata: si arrivò a 6 litri e, data l’assenza delle turbine, 339 Kw.

La berlina aveva un design molto particolare. Possedeva gli elementi stilistici propri delle Bugatti degli anni ’30, ovviamente aggiornati ai canoni attuali. Il desiderio di Artioli era di vendere questa quattro porte di lusso a meno di 300 milioni. Non si esaudì. Purtroppo.

Dopo due esemplari prodotti (una maquette ed un prototipo marciante), il progetto dell’EB112 s’arrestò. Era la prima, tangibile, avvisaglia della crisi cui la Bugatti Automobili andava in contro.

La realtà

I dirigenti della società continuarono ad ostentare tranquillità e fiducia nel futuro: consegnarono ad un privato una EB110 che avrebbe corso a Le Mans (ritirandosi dopo essere arrivata sesta assoluta) ed effettuarono, in collaborazione con la SNAM, un prototipo della stessa vettura alimentato a metano. Nell’anello ad alta velocità di Nardò, il modello a gas stabilì il record assoluto per vetture stradali, toccando i 344.7 Km orari (la versione GT a benzina s’arrestava a 342). Il primato fu superato successivamente dall’ultima evoluzione della EB110 SS capace di ben 352 km/h! Fu il canto del cigno. Ormai la fine era sempre più prossima.

Il 1995 fu l’anno della fine, l’anno del fallimento, l’anno della distruzione dei sogni di Artioli e di tanti altri ingegneri (tra cui Mauro Forghieri), tecnici e operai appassionati che s’impegnarono a fondo in questa bell’avventura finita tragicamente. In totale produssero 126 EB110 (GT e SS) e 13 prototipi completi (di cui 5 sperimentali con la carrozzeria di Gandini e 8 definitivi). Al momento della bancarotta, erano in lavorazione le prime quattro EB110 destinate agli Stati Uniti.

Ciò che seguì lo sappiamo: il marchio cadde in mano a Volkswagen (dopo che un numero imprecisato di altri costruttori dimostrarono interesse).

Artioli ha sempre dichiarato che la fine della Bugatti italiana è stata determinata dagli ostacoli che gli altri costruttori di autovetture sportive hanno creato mettendo “sotto pressione” i sub-fornitori della Motor Valley.

La speranza

In ogni caso non tutto è perduto. A Campogalliano è nata una nuova Bugatti. E’ ovvio che non ha più lo stesso nome, si chiama B. Engineering ed ha realizzato la vera erede della EB110. Jean-Marc Borel (già co-fondatore della Bugatti Automobili) e un affiatato gruppo di progettisti di tutto rispetto hanno concepito una vettura con scocca in fibra di carbonio, carrozzeria in alluminio e mossa da un V12 biturbo (con la novità su un “ciclo Otto” delle turbine IHI a geometri variabile) da 3760cc forte di 500 Kw e capace di viaggiare a 365 km/h accelerando da 0 a 100 km/h in meno di 4″.

L’auto si chiama Edonis (dal greco “piacere”) ed è palese che incarni tutte le migliori caratteristiche delle GT made in Modena. Nel caso la produzione si avviasse, ne produrranno solo 21, un numero simbolico: una per ogni secolo, e ognuna avrà il nome di un diverso personaggio storico.

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